Palermo: un anno sabbatico per il parroco della Mediatrice, uno “scandalo” a cui non siamo abituati!
«Non è una colpa scegliere di fermarsi prima del crollo definitivo, capendo che le forze non ci sono più come prima e che si potrebbe continuare a fare male alle persone attorno… Si tratta di un atto di responsabilità! Nei miei confronti e soprattutto nei vostri!». È la lucida considerazione che don Fabrizio Moscato – stimato presbitero dell’arcidiocesi di Palermo – rivolge ai propri parrocchiani di Maria SS. Mediatrice e agli amici per rendere nota la scelta di fermarsi per un anno dall’incarico di parroco. Un “anno sabbatico” – come ci ricorda la tradizione veterotestamentaria – per far riposare la “terra”, quella terra che diventa metafora della vita di fede quotidiana, all’ombra del campanile parrocchiale verso il quale converge o dovrebbe convergere l’uomo che cerca Dio; una terra, immagine della nostra umanità, dove il chicco di grano (la Parola di Dio) può crescere, fiorire o lasciarsi avvolgere dalle erbacce; una terra (l’uomo) che spesso calpestiamo e consumiamo senza nessuno scrupolo, e, tuttavia, una pasta argillosa e malleabile con la quale il Padreterno ci ha rivelato i tratti della sua immagine e somiglianza!
Anche il sacerdote è fatto di questa pasta… humus, campo, podere, superfice, suolo, riserva sacra agli occhi di Dio, anch’essa bisognosa di riposo quando si perde di vista – precisa don Fabrizio – «il motivo più vero e profondo per il quale sono qui, quello di annunciarvi Gesù Cristo», rimanendo spesso «schiacciato sotto il peso di tante responsabilità amministrative e gestionali che, in una struttura così grande [la Parrocchia], sono all’ordine del giorno».
Io sono felice di essere sacerdote
La lettera aperta che don Fabrizio Moscato ha consegnato ai parrocchiani per spiegare le ragioni della sua scelta non è solo un gesto di cortesia, ma un segno allarmante dei tempi che deve farci riflettere con molta attenzione; un’occasione che dovrebbe portarci a scoprire l’identità del presbitero, quella che – spiritualmente più vera – ci porterebbe immediatamente a riconoscere, attraverso il suo ministero sacerdotale, l’attenzione e l’amore di Dio per noi. Chi nel prete riconosce quest’aspetto, è in grado o dovrebbe essere in grado di saperlo custodire e rigenerare attraverso la preghiera.
«Siamo purtroppo abituati a sentire di sacerdoti che “sbagliano” o che arrivano spompati e soli a certi fallimenti ministeriali, e che vengono così sbattuti in prima pagina… Per questo, la notizia di un anno sabbatico fa correre il pensiero alle più tristi ipotesi». Allora – precisa don Fabrizio riferendosi alla sua scelta – è necessario sottolineare alcune cose: «Non c’è nessuna crisi vocazionale… Io sono felice di essere sacerdote! Ridirei il mio “sì” mille volte! Non c’è nessuna crisi affettiva, nessun pasticcio da cui allontanarmi… Sono quello che vedete, senza filtri! Non c’è nessuna minaccia che mi spinge a mollare la presa… Ho dimostrato di essere abbastanza forte anche dinanzi a tante provocazioni e a varie ingiustizie. Insomma… Non c’è nessun colpevole da cercare. Non è colpa di nessuno…».
Già, non è colpa di nessuno se in un preciso momento della nostra vita si sente il bisogno di fermarsi un istante per riprendere fiato.
Certamente – osservando anche i risultati raggiunti a Villa Tasca in pochi anni – il lavoro svolto da don Fabrizio nella sua Parrocchia è stato impeccabile e ricco di iniziative e inventive pastorali che in breve tempo hanno rimesso in moto e rilanciato un’intera comunità parrocchiale; una eco di successi pastorali che si è diffusa a macchia d’olio nelle parrocchie limitrofe e in tutta quanta l’Arcidiocesi. Poi – ammette Moscato – «in questo ultimo anno le mie forze non sono state più le stesse, il mio entusiasmo è andato calando, la mia soglia di tolleranza e la mia capacità di accoglienza sono state fortemente condizionate».
Ed è a partire da questa umana fragilità che è giusto fermarsi per riflettere e imparare. «Io certamente imparo dalla mia debolezza. La riconosco – dichiara don Fabrizio – senza vergogna e faccio il mio esame di coscienza. Forse ho fatto troppo… Ho tirato troppo la corda… Ho dato senza pensare che, per riuscire a dare sempre di più, avrei dovuto fermarmi a ricevere sempre di più».
Una lettera aperta anche per i laici
Sarebbe un vero peccato, però, se le parole di don Fabrizio non interrogassero ciascuno di noi, nell’ambito vocazionale di appartenenza, laici e presbiteri, in questa realtà ecclesiale dove talvolta al sacerdote chiediamo o pretendiamo tutto tranne che ci aiuti a riconoscere e ad amare Cristo nella vita di tutti i giorni. «Che ci gioverebbe – affermava il Santo Curato d’Ars – una casa piena d’oro se non ci fosse nessuno che ce ne apre la porta? Il prete possiede la chiave dei tesori celesti: è lui che apre la porta; egli è l’economo del buon Dio; l’amministratore dei suoi beni… […]. Il prete non è prete per sé, lo è per voi».
Forse anche noi – laici non sempre coerenti nelle scelte di vita cristiana – dovremmo mettere mano ad una lettera aperta che ci faccia riconoscere con umiltà i limiti della nostra testimonianza ecclesiale, talvolta debole e incolore, e chiederci con onestà se fra le cose che chiediamo al Parroco (spazi, locali, incontri, gite, feste patronali ecc.) ci sia anche la cura dei beni spirituali della nostra anima, della famiglia, dei nostri figli, e, soprattutto, quanto siamo disposti a lasciarci guidare.
«Scelgo volontariamente di lasciare la Parrocchia – conclude Moscato – per prendermi un anno sabbatico, cioè un “anno per me”, un tempo prezioso durante il quale curare meglio la preghiera, approfondire la mia formazione teologica, vivere un aggiornamento pastorale, riprendere energie umane e spirituali, in vista di un nuovo servizio che la Chiesa vorrà affidarmi». Che un sacerdote chieda un anno sabbatico (per motivi diversi dalla crisi vocazionale) non è uno scandalo a cui siamo abituati! Il vero scandalo – ricorda don Fabrizio nella sua lettera – sono «le troppe chiacchiere che infangano il bene che si compie […]. Mormorazioni e pressioni che creano malumori e battute d’arresto di cui tutti pagano le conseguenze». Anche questo aspetto merita un’attenta analisi, soprattutto nel nostro tempo dove l’incapacità di misurare le parole o di utilizzare parole “buone” è proporzionata all’aridità spirituale che assimiliamo quotidianamente attraverso un uso distorto dei mezzi di comunicazione. Significative, al tal proposito, le parole di Giovanni Paolo II ai sacerdoti pronunciate trentatre anni fa: «Quanto è importante, cari fratelli, che non perdiamo mai di vista il mistero della redenzione. Infatti, è nostro compito aiutare le nostre genti a distogliere lo sguardo dalle pene e le fatiche della vita terrena, a guardare oltre le seducenti, false promesse del mondo verso le luminose e autentiche promesse del Redentore del mondo» (Singapore, 1986).
“Il mistero della redenzione”, forse è proprio da qui che bisogna ripartire!